Un Marine gli stropiccia la bandiera americana sul volto, poi un carro armato la traina fino a farla cadere, lentamente, con fatica, e infine la gente salta e balla sui suoi resti. Era il 9 aprile del 2003 quando la statua in bronzo alta 12 metri di Saddam Hussein veniva abbattuta sulla Piazza Al Ferdous di Baghdad poco dopo l’entrata in città delle truppe americane, al termine di un’offensiva durata 21 giorni.
Ma nelle ore successive cominciavano i saccheggi in una città in preda al caos, con ministeri dati alle fiamme e anche gli ospedali e il Museo nazionale attaccati, e i militari statunitensi che rimanevano impotenti a guardare. Un segnale di quello che sarebbe avvenuto nei successivi 15 anni fino ad oggi, in un Paese diviso da odii confessionali ed etnici e violenze che hanno provocato centinaia di migliaia di morti e il trionfo del fondamentalismo islamico. Oltre che la fuga dall’Iraq di gran parte dei cristiani, che fino alla caduta del regime erano oltre un milione.
Nonostante la ‘vittoria’ proclamata lo scorso dicembre dal governo sullo Stato islamico, che nel 2014 era arrivato ad occupare quasi senza colpo ferire un terzo del Paese – accolto trionfalmente da parte della popolazione sunnita – i civili continuano a morire in attentati e scontri armati. La missione delle Nazioni Unite nel Paese ha fatto sapere che nel mese di marzo altre 104 persone sono rimaste uccise e 177 ferite.
Vittime che si aggiungono al lunghissimo elenco di coloro che hanno perso la vita in questi 15 anni. Impossibile stabilirne con esattezza il numero, ma secondo un bilancio dell’organizzazione Iraq Body Count i civili morti sono tra i 180.000 e i 200.000. I soldati americani caduti sono quasi 4.500 e 33 quelli italiani della Coalizione internazionale, compresi i 19 uccisi nell’attentato di Nassiriya.
Le armi di distruzione di massa con le quali il presidente George W. Bush aveva motivato l’invasione non sono mai state trovate e l’obiettivo di rendere più sicuro il mondo del dopo-11 settembre con l’abbattimento del regime di Saddam si è rivelato una tragica illusione. La fine del dittatore ha favorito le ingerenze in Iraq e in altri Paesi della regione dell’Iran, proprio con l’apertura di quel corridoio sciita che ora gli americani vedono arrivare attraverso la Siria e il Libano fino ai confini di Israele. I sunniti, alla cui confessione appartenevano Saddam e i suoi fedelissimi, sono stati a lungo discriminati e almeno parte di loro ha visto nell’Isis un’organizzazione capace di difenderli. Anche dirigenti e comandanti militari del passato regime sono riapparsi ai vertici dello Stato islamico.
Scacciati dalle grandi città, i reduci dell’Isis si stanno ora riorganizzando in regioni rurali specie nel nord, a sud-ovest di Kirkuk, mentre i dissidi tra il governo centrale e le autorità curde continuano a preoccupare. E’ in questa situazione, e con ancora oltre 2 milioni di sfollati, che gli iracheni si apprestano ad andare alle urne il 12 maggio per il rinnovo del Parlamento. Ancora una volta con liste che rispecchiano le divisioni tra sunniti e sciiti. Tra i candidati vi saranno anche 500 ex membri delle milizie paramilitari della Mobilitazione popolare, molte delle quali alleate dell’Iran, che negli ultimi tre anni hanno combattuto al fianco delle forze governative contro l’Isis.
Gli iracheni non hanno avuto nemmeno una vera giustizia per i crimini commessi dal deposto regime. Catturato nel dicembre del 2003, Saddam veniva impiccato tre anni dopo. Ma fece in tempo ad essere condannato solo per le esecuzioni di 148 sciiti. Nessuna chiarezza fu dunque fatta su episodi quali i bombardamenti chimici sui curdi e sulle truppe iraniane nella guerra tra il 1980 e il 1988, o l’invasione del Kuwait nel 1990. E tantomeno sugli imbarazzanti rapporti intrattenuti con i Paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti.
(Fonte: Ansa.it)