Casi di cronaca più e meno recenti (ultimo dei quali la liberazione di Silvia Romano) lasciano spesso dei dubbi circa il legame che può crearsi tra le vittime di un sequestro e i loro rapitori.
La spesso citata Sindrome di Stoccolma, in particolare, è una condizione psicologica che rappresenta quasi un paradosso del comportamento umano: l’ostaggio che ne è interessato, infatti, avverte simpatia, comprensione, empatia, fiducia, attaccamento e talvolta perfino amore nei confronti del suo rapitore, quando invece per il senso comune sarebbe più logico che provasse, alla luce del maltrattamento e della privazione di libertà subiti, sentimenti come odio, avversione, antipatia, volontà di non assoggettarsi. Secondo l’Intelligence americana caratterizza l’8% dei sequestri di persona.
Il termine fu coniato da Conrad Hassel, un agente speciale dell’ FBI, in seguito ad un famoso episodio verificatosi nel 1973 nella città svedese, in cui due rapinatori presero come ostaggio tre donne e un uomo per oltre cinque giorni, all’interno di una banca. In quel lasso di tempo, infatti, fu chiaro agli investigatori che le vittime temessero più la polizia dei rapinatori stessi, chiedendo clemenza per loro e testimoniando in loro favore, e che una delle donne in particolare sviluppò un forte legame sentimentale con un sequestratore.
Questa Sindrome può interessare ostaggi e rapitori di ogni età, di ambo i sessi, di ogni nazionalità e senza distinzione di retroterra socio-culturale. Sembrerebbero esserci dei fattori che ne faciliterebbero l’insorgere: la durata e l’intensità dell’esperienza, la dipendenza dell’ostaggio dal delinquente per la sua sopravvivenza e la distanza psicologica dell’ostaggio dalle autorità.
Le cause e le dinamiche che la caratterizzano sono ancora oggetto di studio e non appaiono chiare. Si ritiene che i legami positivi tra rapitore e rapito non si formino subito, ma si rivelino già abbastanza solidi entro il terzo giorno di prigionia: questo potrebbe essere giustificato dal fatto che nei primi momenti dopo il sequestro il rapito sperimenti un totale stato di confusione, riscontrabile anche in alcune risposte tipiche al trauma: diniego, illusione di ottenere la liberazione, attività frenetica ed esame di coscienza. Una volta superato il trauma iniziale, la vittima torna consapevole della situazione che sta vivendo e deve trovare un modo per sopportarla tutto ciò,unitamente all’aumentare del tempo trascorso insieme tra vittima e rapitore ed all’isolamento dal resto del mondo, agevola l’alleanza col sequestratore. La mancanza di forti esperienze negative, quali percosse, violenza sessuale o abuso fisico, facilita la genesi della sindrome; al contrario, abusi meno intensi, deprivazioni ed umiliazioni tendono ad essere razionalizzati e le vittime si convincono che la dimostrazione di forza del sequestratore sia necessaria per controllare la situazione o giustificata da un loro comportamento scorretto. Spesso il legame fra sequestratore e rapito comincia sulla base di un comune risentimento nei confronti della polizia, che il più delle volte è percepita dall’ostaggio come minacciosa: l’insistenza per la resa del criminale e l’eventualità di un’incursione pongono la vittima in un continuo stato d’ansia e di paura per la propria incolumità. Inoltre, le forze dell’ordine vengono considerate meno potenti del delinquente stesso, perché hanno fallito il loro ruolo protettivo e di garanti dell’ordine pubblico dal momento che il sequestro è avvenuto.
Una volta sviluppatasi non si conosce ancora con precisione la possibile durata di questa Sindrome, ma pare possa sussistere anche per parecchi anni. Oggi viene associata alla Sindrome da stress post-traumatico e per questo trattato con farmaci e psicoterapia. Gli strascichi del disturbo possono provocare disturbi del sonno, incubi, fobie, trasalimenti improvvisi, flashback e depressione.
Dott.ssa Alessia Zappavigna –Psicologa