E’ ancora giallo sugli equipaggi dei pescherecci italiani fermati in Libia orientale: l’unica cosa che appare chiara è la prova di forza del generale Haftar, l’escluso dal congelamento della guerra imposto da Mosca, Ankara e Washington, nei confronti di Roma.
«Appariranno presto davanti a un tribunale che dovrà giudicare il reato da loro commesso» dice a La Stampa il presidente della commissione Affari esteri del parlamento di Tobruk, Yusuf Al-Agouri. La spiegazione è quella fornita alle autorità italiane: «I pescherecci sono stati fermati mentre svolgevano attività nella zona economica esclusiva della Libia». Sulla carta quindi il caso è trattato secondo le vie ordinarie della Giustizia libica, ma la vicenda resta fumosa.
Non è la prima volta che i libici trattengono dei pescherecci italiani, ma in genere si risolve tutto in poche ore, al massimo un paio di giorni. Da oltre due settimane invece, i dieci pescatori italiani partiti da Mazara del Vallo sono “in stato di fermo” insieme a dieci colleghi di altre nazionalità. Due di loro si trovano a bordo delle imbarcazioni e otto in una villa nei pressi di Al-Marj, la roccaforte di Haftar. Altro elemento chiave è la presunta richiesta di liberazione dei quattro calciatori libici detenuti in Italia perché condannati in appello nel 2015 con l’accusa di traffico di esseri umani e immigrazione clandestina. Per loro, fa sapere l’ambasciata libica a Roma, è stato esaminato il ricorso in Cassazione perché secondo l’attuale avvocato difensore gli imputati non sarebbero stati seguiti ed assistiti in modo continuativo dai predecessori. Come mai, allora, è stata avanzata la richiesta di scarcerazione prima della revisione del caso in terzo grado?
Si dice che tale richiesta sarebbe giunta dalla Cirenaica dove esiste un governo parallelo guidato dal 2014 dal primo ministro “orientale” Abdullah al Thani, il quale, tra l’altro, qualche giorno fa, ha presentato le sue dimissioni in seguito a una serie di proteste popolari. E’ la parte di Libia con perno su Bengasi su cui di fatto regna Haftar, la stessa che fa trapelare la notizia non confermata di una partita di stupefacenti trovata a bordo dei pescherecci durante i controlli. Un pretesto, si teme, sollevato da chi avrebbe interesse a utilizzare gli italiani come leva politica prima ancora che per lo “scambio dei prigionieri”.
Il fermo è avvenuto nel giorno della quarta visita in dieci mesi del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Libia, recatosi a Tripoli, a Qubba, dal presidente del parlamento di Tobruk Aguila Saleh, ma non da Haftar. Una scelta tarata sulla perdita di peso militare e politico del generale, spiegano fonti tripoline. Una scelta impugnata però adesso dall’uomo forte della Cirenaica che da un lato vuole mostrarsi ancora potente con Roma e dall’altro parla al suo popolo in ebollizione, giacché i calciatori libici detenuti in Italia appartengono a importanti clan locali.
Nella difficoltà di percorrere i canali diretti (giacché c’è un governo parallelo oltre a quello di Fayez al Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale) Di Maio sta battendo le strade di Russia ed Emirati, sponsor principali di Haftar. «Sarà convocato presto un vertice di governo su questo tema» avverte il titolare della Farnesina incalzato, tra gli altri, dal deputato di Leu Erasmo Palazzotto, che parla di «un inaccettabile ricatto da parte dei libici». A dare manforte al ministro degli esteri c’è il collega della Giustizia, Alfonso Bonafede, originario di Mazara: «Di Maio si sta occupando personalmente della questione e confido nella veloce soluzione del caso ma per me è importante far sentire la mia vicinanza ai pescatori, miei concittadini».
Fonte: https://www.lastampa.it/ articolo di FRANCESCA PACI, FRANCESCO SEMPRINI