L’Italia ha 18 marittimi che da 100 giorni sono detenuti in Libia. Nelle prigioni della Cirenaica, terra in mano al generale Khalifa Haftar e al suo esercito, i pescatori dell’Antartide e della Medinea sono in attesa di conoscere il proprio destino. Così come le loro famiglie, che sperano di passare un Natale insieme ai propri cari, detenuti – ufficialmente per pesca illegale – dalle forze di Bengasi.
Il tempo però corre inesorabile. E per adesso, dopo cento giorni di detenzione, non sembra che la svolta sia vicina. Nei giorni scorsi, abbiamo assistito alla fulminea liberazione di un cargo battente bandiera giamaicana, ma legato alla Turchia, sequestrato a Derna dalle milizie del generale libico. In cinque giorni, la nave ha ripreso il mare con la liberazione anche dei sette marinai turchi catturati all’interno del “Mabouka”. L’intervento di Recep Tayyip Erdogan, che ha minacciato ritorsioni anche di tipo militare sulla Cirenaica, ha sicuramente fatto la differenza. Così come l’hanno fatta i canali diplomatici attivati con Mosca, che “causalmente” ha assistito alla contemporanea liberazione di due suoi uomini prigionieri a Tripoli. Uno scambio che evidentemente è servito a entrambe le potenze coinvolte nel ginepraio libico.
Il problema è però capire su quale piano intervenire. L’accorato appello del vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero, ha riacceso i riflettori sulla possibilità di fare intervenire le forze speciali. Un vero e proprio blitz per liberare i pescatori, su cui è tornato anche Mario Arpino, che sulle colonne de La Nazione ha spiegato come l’Italia sarebbe perfettamente in grado di liberare i detenuti attraverso l’uso dei proprio uomini delle forze scelte. Intervento che in ogni caso, secondo lui, non sarebbe auspicabile per la delicata situazione giuridica in cui sono coinvolti i marittimi di Mazara. Tema di fondamentale importanza, certo, ma che non fa i conti con una realtà che potrebbe essere anche molto più complicata di quanto si possa credere.
Una fonte di alto livello, che ha preferito rimanere anonima, ha riferito a InsideOver che l’idea di un’azione in Libia per liberare i detenuti sarebbe molto complicata sia da un punto di vista politico che, nello specifico, a livello militare. Sotto il primo profilo, la nostra fonte ha voluto ribadire che in Italia manca completamente la volontà politica per autorizzare un intervento del genere, dal momento che non è mai stato nelle nostre corde realizzare azioni di questo tipo. Quindi c’è innanzitutto un problema di natura decisionale. Secondariamente, vi è un profilo tecnico, di concretizzazione delle operazioni, su cui l’Italia – ci spiega la fonte – non può definirsi completamente preparata. Pur esistendo chiaramente reparti nati e predisposti per questo scopo, a cominciare dagli incursori del Goi.
“Per svolgere un’operazione di questo tipo servono non solo uomini, ma anche mezzi, e molti, in particolare elicotteri. Serve un dispiegamento aeronavale importante che supporti quest’incursione in territorio nemico” ribadisce la fonte, che poi ci spiega cosa avviene in queste situazioni: “Per liberare gli ostaggi, prima di tutto va isolata e messa in sicurezza un’area molto estesa in cui si presume siano le persone da liberare”. “Una volta individuata l’area – continua – servono tre tipi di elicotteri con compiti ben distinti. Sono necessari elicotteri da combattimento per ‘ripulire’ l’area, che colpiscano in particolare eventuali obiettivi pesanti. Poi elicotteri per lo ‘sniping’ con i cecchini che siano in grado di colpire l’edificio in cui sono trattenute le persone. Infine, occorrono altri tipi di elicotteri da trasporto per far arrivare le unità delle forze speciali con il compito di entrare nella ‘roccaforte’”. Insomma, un’operazione altamente complessa e sofisticata.
L’Italia ne avrebbe le capacità? “In parte – spiega la fonte a InsideOver -, ma sono ben pochi gli uomini con l’addestramento adeguato a questo scopo. Il Goi, della Marina Militare, sarebbe quello più adatto, insieme al Nono Col Moschin, ma mancano i mezzi e soprattutto, come già detto, la volontà politica”. Che a questo punto è il vero nodo da sciogliere: il governo non darebbe l’avallo – questo come molti altri prima – a operazioni delle forze speciali.
Sembra difficile che l’Italia possa permettersi un’azione di quel tipo in totale libertà, dal momento che è un territorio straniero ma con cui non si è in guerra. I pescatori sono prigionieri, certo, ma non sono ostaggi di un’organizzazione terroristica. Sono in mano ad Haftar, che, conviene ricordarlo, fino a pochi mesi fa veniva ricevuto con tutti gli onori a Palazzo Chigi ed era considerato un interlocutore di massimo livello per la stabilizzazione della Libia. E sotto il profilo diplomatico, l’Italia in questo momento ha ben poche armi per rivalersi contro l’uomo forte di Bengasi, visto che a nessuno interessa troppo aiutare il governo in questa trattativa.
Si potrebbe bussare alle porte di Mosca, che rappresenta l’assicurazione sulla vita del maresciallo libico. Ma non si comprende bene cosa potrebbe richiedere in cambio il Cremlino. Lo si è visto con la nave turca: la liberazione è avvenuta e nello stesso tempo sono stati liberati due uomini ritenuti vicino al Wagner Group arrestati a Tripoli. Ci sarebbe Ankara, con cui l’Italia “condivide” la Tripolitania, ma è da escludere il loro coinvolgimento in un’operazione di questo genere. Altre potenze non sembrano così interessate – attualmente – allo scenario libico.
Tutto questo non fa altro che congelare il già poco dinamico governo. E non rimane altro che trattare. E Haftar vuole quello: negoziare uno scambio per riavere in Cirenaica i presunti “calciatori” arrestati dalle forze dell’ordine italiane. Nei prossimi giorni, il (probabile) processo ai pescatori davanti al tribunale militare di Bengasi potrebbe essere la svolta decisiva.
Fonte: insideover.com a cura di Lorenzo Vita