Possiamo festeggiare finalmente, dopo 108 giorni, la liberazione dei 18 pescatori mazaresi. E si deve dare atto al governo di avere portato a compimento la missione con una trattativa lontana dai riflettori, anche se forse eccessivamente lunga. Ma dopo avere salutato il dono natalizio della riunione di famiglie divise e angosciate, non si possono non fare i conti con le implicazioni politiche, diplomatiche e geostrategiche della vicenda. Perché, secondo molti analisti, il “riscatto”, stavolta, era Giuseppe Conte.Un riscatto incassato dal generale Haftar, responsabile, con le sue milizie marittime, del sequestro dei connazionali, che cercava fin dal primo momento una doppia legittimazione: davanti alla sua opinione pubblica e al cospetto dei suoi spazientiti sponsor (la Russia, l’Egitto di al-Sisi e gli Emirati Arabi). Che quella sui pescatori presi in ostaggio non fosse una partita da risolvere solo con le consuete spedizioni di valigette ripiene di dollari era apparso ben presto chiaro. E la missione del nostro premier in persona l’ha confermato.
Il generale ribelle, smessi i panni del rivoluzionario, ha indossato quelli da “signore della guerra”, continuando nelle sue scorribande. La vicenda, a lieto fine, dei pescatori (8 gli italiani) gli ha per il momento allungato la carriera politico-militare. Dopo aver promesso una facile conquista di Tripoli, l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) si è impantanato venendo poi costretto, pochi mesi fa, alla ritirata per mano delle fazioni avversarie rinforzate di uomini e armi forniti dalla Turchia. Ankara ha soppiantato definitivamente le velleità italiane, con Roma passata in pochi anni da garante della Libia nelle relazioni internazionali a Paese che deve ottenere da altre cancellerie un’intercessione per liberare nostri connazionali.
Quasi tutti gli interlocutori italiani nella nazione africana sono caduti in disgrazia. Le milizie di Zawyah, che controllano il principale giacimento a cui attinge il nostro Paese, hanno recentemente visto l’arresto a Tripoli del comandante-trafficante Bija. Uno dei fratelli Dabbashi, boss del traffico di petrolio e migranti dalla Tripolitania, è stato catturato proprio dagli uomini di Haftar che sperano di ottenere da lui i segreti della negoziazione e dei lauti versamenti italiani a partire dal 2017. Informazioni con cui imbastire minacce e ricatti. Anche per questa ragione gli 007 del generale Caravelli, direttore dell’Aise, non hanno avuto vita facile nel gestire una trattativa che ha visto i massimi vertici dell’intelligence fare continuamente la spola tra Roma e Bengasi, dovendo districarsi tra i non pochi errori ereditati dopo anni di accordi spericolati con i referenti dei clan libici.
Un negoziato tra gambero rosso e oro nero, lo avevamo definito. Perché apparentemente giocato sulla rivendicazione libica di un’area di pesca esclusiva, in realtà accampata come facile pretesto per mercanteggiare sul futuro dei giacimenti persi dall’Italia dopo la caduta del colonnello Gheddafi e anche su altri spinosi dossier, comprese le possibili ricadute sul caso Regeni in Egitto. «La visita di persona del premier Conte è stata imposta dal Lna come parte della trattativa. Da questo Haftar e i suoi negoziatori hanno tratto visibilità e credito politico», riferisce una fonte di intelligence internazionale in Libia. Che con altrettanto realismo riconosce «che non c’era altra strada per ottenere la liberazione dei vostri pescatori prima di Natale».
Sotto al tavolo delle trattative ufficiali si è però disputato un altro braccio di ferro. Gli 007 italiani sarebbero riusciti a ottenere garanzie per la prosecuzione delle attività delle aziende italiane nel campo petrolifero di Abu Attifel, nel cuore della Cirenaica controllata da Haftar. Un risultato, riferiscono fonti vicine alle security petrolifere, per il tramite del gioco di sponda del Cairo con cui in particolare l’Eni ha costruito solidi rapporti grazie ai successi nelle esplorazioni di petrolio e soprattutto gas nel Paese delle Piramidi.
E dalla determinazione o dalla remissività verso il governo del Cairo nella sacrosanta ricerca della verità sull’omicidio di Giulio Regeni comprenderemo presto quali altri dossier siano entrati nell’intesa per l’auspicato rilascio dei 18 pescatori. Una partita che, nel colpevole disinteresse di molti verso le vicende libiche, tragedia delle migrazioni forzate compresa, ha visto soltanto la fine del suo primo tempo.
Fonte: Avvenire.it – Nello Scavo