Lo scenario è quello del teatro Garibaldi di Mazara del Vallo, piccolo gioiello dell’800 che, come ricorda all’apertura dell’incontro il moderatore Roberto Marrone, è stato in gran parte costruito con elementi lignei provenienti da demolizioni navali. Entriamo così dentro il tema: Mazara è il suo mare, qui il mare è inizio e fine, e un dibattito sui diritti passa anche da lì, dai diritti di chi va per mare, di chi porta il gambero rosso sulle tavole di tutto il mondo. Centra subito il problema il sindaco Quinci, il primo dei relatori ad intervenire sul palco: il primo diritto è il lavoro in sicurezza. Ricorda i drammatici giorni del sequestro dei 18 pescatori, esattamente un anno fa, una ferita che ancora brucia da queste parti.
Da allora gira come una trottola, bussando a tutte le porte, perchè si affronti e si risolva in tutte le sedi istituzionali l’annosa questione della guerra del pesce, perchè si regolino i rapporti con i Paesi rivieraschi, “perchè Mazara deve guardare a sud, non certo a nord,” continua a ripetere, e soprattutto perchè “Mazara deve rimanere la città che lo pesca, il gambero rosso, e non che lo commercializza solamente” .Parla dei pescatori tunisini, “La vera integrazione si realizza sui pescherecci”, dice. “E’ il lavoro che produce integrazione”.
Fortemente voluta dal direttore del Festival Roberto Rubino, che la apre con i suoi saluti, questa conferenza abbraccia idealmente in un racconto intenso e commovente tre città, legate tra di loro da cultura, storia, tradizioni ma soprattutto dalla generosità, la loro cifra distintiva: Mazara, Lampedusa, Palermo. Sono le porte d’Europa sul Mediterraneo, città di sbarco e d’accoglienza, multietniche e scrigno di culture diverse, città che accolgono, includono, danno riparo.
Gli ospiti, oltre al già citato sindaco di Mazara Quinci, sono Carmelo Miceli, giovane deputato del Pd, Leoluca Orlando sindaco di Palermo e Pietro Bartolo, eurodeputato e già medico di Lampedusa.
L’on Miceli interviene sui diritti dei migranti, sul suo lavoro in Parlamento per archiviare definitivamente i decreti sicurezza voluti da Salvini, per poter dare dignità, ma soprattutto un volto e un nome a chi arriva. Racconta del suo impegno (e la sua mediazione con la ministra Lamorgese) nei confronti dei migranti di Campobello e Castelvetrano, dove nel rogo di un campo abusivo la settimana scorsa ha perso la vita un giovane bracciante: è di ieri la notizia che il governo finanzierà i progetti per due campi, garantendo così a questi giovani, indispensabili nella stagione della raccolta delle olive e di tutti i lavori agricoli stagionali, condizioni di vita dignitose.
E’ stata poi la volta dell’on Bartolo che ha tenuto per almeno mezz’ora il pubblico assorto, in un silenzio carico di emozione, nell’ascolto della sua testimonianza di medico responsabile degli sbarchi a Lampedusa. Un racconto di grande umanità e passione, a tratti commosso, quello del dottor Bartolo, che ha toccato le corde più profonde della sensibiltà di tutti. Storie di un’umanità disperata, tragedie, vicende finite bene altre malissimo, le morti, le torture, le umiliazioni, i cadaveri dei bambini: davanti ai suoi occhi trent’anni di sbarchi, di visite e di ispezioni, che ha raccontato nei film, nei libri, e che continua a raccontare in giro, alla gente, ovunque lo invitino, con dolore e speranza che a tutto questo orrore si possa prima o poi metter fine.
“Sono stato naufrago anch’io, dice, so cosa significa”, raccontando di quando, ragazzo, cadde in mare da un peschereccio e lo recuperarono dopo tantissime ore, quando le forze stavano ormai per abbandonarlo. “Sono stato pescatore, sbarcavamo il pesce a Mazara da Lampedusa. Conosco la tragedia dei sequestri. Mio padre è stato sequestrato dai libici, per un mese non abbiamo avuto notizie, quando è tornato la vergogna e l’umiliazione per quello che aveva subito erano così forti che non volle mai parlarne”. Da cinquant’anni la storia si ripete sempre uguale.
Conclude Leoluca Orlando, che ammalia il pubblico con la sua oratoria. Istrionico, colto, affascinante, la sua narrazione di Palermo è prosa e poesia insieme. Racconta perchè la ama visceralmente, questa città dalle mille sfaccettature e dalle mille culture di cui è stato sindaco così tante volte che è difficile ormai immaginarla senza di lui. Ma se è così: bella, difficile, sfuggente, generosa, piena di contraddizioni e profondamente umana, un po’ è anche merito suo.
“Ma quale identità palermitana, dice, l’identità di una città non esiste, esiste solo l’identità personale. Noi abbiamo bisogno di loro (i migranti) perchè loro ci stanno ricordando quali sono i nostri diritti. La cosa più importante è rendere tutti visibili, perchè se dai la residenza anagrafica diventi anche individuabile, in democrazia la sicurezza si basa sul rispetto dei diritti. E’ in dittatura che la sicurezza si esrcita con la negazione dei diritti”.
Chiude raccontando un episodio che riguarda Mazara, è già tardi, c’è la mostra da andare a visitare ma il pubblico, ammaliato, avrebbe continuato ad ascoltarlo ancora per ore.
Catia Catania
Comunicazione Festival Marenostrum