Chissà se riuscirà mai a recuperare la vista dall’occhio preso a bastonate. Da allora c’è chi ha smesso per sempre di gettare le reti. E chi ancora non riesce a camminare senza zoppicare. Le sevizie subite dai pescatori siciliani sequestrati un anno fa in Libia sono il capitolo meno noto dei giorni che nessuno di loro riesce a dimenticare. E c’è un volto che vorrebbero vedere davanti a un tribunale. Un volto mai identificato, ma che adesso ha un nome e una faccia da mostrare.
Il boia di Bengasi ogni notte faceva ascoltare ai pescatori siciliani il pianto disperato dei torturati in nome di Haftar. Dopo 108 giorni di prigionia di lui avevano raccontato molto ai magistrati, ma non c’era neanche una foto da identificare.
Fino a quando gli viene mostrato un vecchio reportage dell’emittente francese “Arte”. E al minuto 3 appare lui. Qualcuno ha pianto alla vista dell’aguzzino. I più urlano di rabbia. Imprecano.
Perché lui è Bashir Al Jahni, «il famigerato capo delle guardie di El Kuefia». Così lo definiscono Giuseppe Ciulla e Catia Catania, i due giornalisti che per Bompiani hanno ricostruito nel libro “La Cala. Centro giorni nelle prigioni libiche”, il diario dei prigionieri raccontato attraverso ricordi da togliere il sonno. Come del resto avveniva a loro. A cui era spesso impedito di dormire, nella speranza che confessassero d’essere dei trafficanti di droga. Reato che può essere punito anche con la morte. Una farsa, l’ennesima, degli uomini di Haftar che a ogni giorno che trascorreva continuavano ad alzare il prezzo con l’Italia.
Per 108 giorni, dall’1 settembre 202o, diciotto pescatori – otto tunisini, sei italiani, due indonesiani e due senegalesi – sono stati trattenuti in Libia. Erano a bordo di due pescherecci di Mazara del Vallo, “Antartide” e “Medinea”, sequestrati dalle motovedette libiche. L’accusa era quella di avere pescato in acque internazionali che la Libia rivendica unilateralmente come zona esclusiva di pesca.
Il 18 dicembre 2020 i pescatori vennero riconsegnati alla libertà nella mani dell’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, accompagnato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Conte e Di Maio vennero accolti dal generale Khalifa Haftar e la loro presenza, che segnò una forte legittimazione del generale ribelle, venne considerata come la parte più consistente del riscatto.
Nell’intervista all’emittente francese il capitano Bashir recitava da consumato bifronte, mostrandosi interessato al comfort dei detenuti. Ma da oggi anche la giustizia internazionale avrà un nome e una fotografia da aggiungere agli indagati. E chissà, anche all’elenco dei ricercati in campo internazionale.
Bashir di notte tornava dopo essersi cambiato d’abito. La maglia bianca sporca di sangue. Gli scarponi pesanti con cui, letteralmente, saltava sui malcapitati che pestava con i tacchi mentre sfondava la schiena a colpi di frusta e ginocchiate.
In mare, la notte della cattura, i due equipaggi dei motopesca siciliani avevano già capito che non era il solito sequestro in acque internazionali, compiuto per negoziare con Roma altre concessioni politiche precedute da valigette infarcite di euro. Già sulla nave «l’uomo che li picchia è il carceriere in canottiera che nella notte ha montato la guardia a poppa. Colpisce due siciliani alla schiena, e quando loro si rialzano li atterra di nuovo prendendoli a ginocchiate sulle cosce. È un invasato. Grida e li colpisce – scrivono Ciulla e Catania nel testo per la collana curata da Roberto Saviano -, poi si ferma e scarica in aria una raffica di mitra».
Il 18 ottobre del 2020 Papa Francesco parlò ai familiari dei pescatori dopo la preghiera dell’Angelus. «Affidandosi a Maria, stella del mare – disse il Pontefice dalla finestra del Palazzo Apostolico – mantengano viva la speranza di poter riabbracciare presto i loro cari». Poi invitò tutti i fedeli presenti in Piazza San Pietro e i milioni collegati attraverso i media a pregare insieme «per i pescatori e per la Libia, in silenzio».
Oggi i pescatori insieme alle loro famiglie incontreranno papa Francesco accompagnati dal vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero. Ringrazieranno il Pontefice a cui confideranno quelle paure che non se ne andranno mai. Come le finte esecuzioni. Con il plotone d’esecuzione schierato.
L’ordine di sparare e il grilletto che scatta a vuoto. Non un capriccio degli aguzzini, ma la scelta precisa di chi vuole farli impazzire. Bashir, agli ordini del suo capo Haftar, ha continuato a maltrattare i pescatori spostandoli in quattro diverse prigioni, dove di volta in volta incontravano dissidenti da mettere a tacere, miliziani di clan caduti in disgrazia, altri prigionieri accusati di essere uomini del Daesh in Libia. Spesso costringeva i pescatori ad assistere alle sevizie che toccavano agli altri.
I ricordi sono vividi: «Nella mano destra impugna una specie di frusta fatta di flessibili intrecciati, tenuti insieme da un’impugnatura che in realtà è la manopola di un motorino. Bashir è sopra uno dei detenuti, con i suoi scarponi pesanti e le ginocchia piantate sulla schiena dell’uomo. Attorno a lui, altre cinque o sei guardie hanno tra le mani la stessa frusta artigianale e un prigioniero sotto gli stivali». Bashir è completamente sporco di sangue. E non serve aggiungere altro.
Da oggi quel nome ha un volto. E non lo dimenticherano neanche quando, un giorno, potranno avere giustizia.
Fonte: Avvenire.it (articolo di Nello Scavo)