Sono trascorsi 30 anni dalla storica visita del Santo Padre, Giovanni Paolo II, alla nostra Chiesa di Mazara del Vallo.
Quell’otto di maggio del 1993 è stata la giornata più bella, la più memorabile del nostro passato, una di quelle giornate che si imprimono nella mente e toccano le corde più profonde e nascoste del nostro animo per l’intensità delle emozioni e dei momenti vissuti.
Se dopo questi anni dovessimo estrarre da quei momenti le sensazioni più forti, crediamo che le più evidenti, quelle che ancora affiorano nella nostra mente, sono la moltitudine immensa di popolo, cristiano e non cristiano, di questa Città raccolto a torno alla figura del grande Pontefice, uno dei più grandi che la storia, due volte millenaria, della Chiesa ricordi, un uomo “umile ed alto” che si appresta oggi ad ascendere ad un soglio ancora più elevato e prestigioso, quello dei Santi; e poi le parole quelle parole gravi e solenni, dolci e appassionate al contempo, che pronunciò nella Sua omelia con gli occhi rivolti alla moltitudine che Gli stava davanti e al mare africano che Gli stava di fianco.
Se ricordiamo quella pagina stupenda del Vangelo, una delle più belle della letteratura di tutti i tempi, che è il Discorso della Montagna, nel rileggere l’omelia pronunciata da Giovanni Paolo II a Mazara del Vallo viene subito alla mente il pensiero di definirla “il discorso del mare”.
Sono passati 30 anni da quello storico evento, eppure in molti sacerdoti, religiosi e laici, è ancora talmente vivido che se ne ripensano anche i minimi dettagli. Ma qualcosa è venuta a mancare nel tempo: e mancata la meditazione sulle parole che Giovanni Paolo II rivolse alla città di Mazara del Vallo, la rivisitazione condivisa e partecipata di quel fatto storico che non fu soltanto religioso ma anche civile, una riflessione associata e solidale che avrebbe dovuto far da guida negli anni che sono seguiti.
Il Papa chiamò questa Chiesa, con una espressione suggestiva ed esaltante, “Chiesa di frontiera” e l’espressione rimane fra le più belle e complete che Le siano state attribuite.
Ma qual è il significato più vero, più autentico di questa locuzione?
Con quella espressione Giovanni Paolo II consegnò a questa Città e a questa Chiesa una duplice responsabilità; la prima: Chiesa di frontiera e la Chiesa chiamata a difendere la propria identità, i propri valori e la propria fede; la seconda: Chiesa di frontiera è anche la Chiesa del dialogo, del confronto, della collaborazione nel lavoro, della fraternità e della pace.
Ci siamo interrogati su questo cammino che il Santo Padre ci invitò a seguire? Quali passi abbiamo compiuto verso quella integrazione con gli immigrati che a Mazara costituiscono sicuramente una risorsa di lavoro e di sviluppo, ma che al momento resta solo tolleranza o forse anche accidia?
Quale dialogo, quale confronto abbiamo intrapreso con i popoli dell’altra sponda, che sia poggiato su basi di stabilità e di collaborazione?
Il Papa, ripercorrendo la storia plurisecolare di questa Chiesa ci ricordò le alterne vicende che l’avevano segnata, chiamò la Città “vero crocevia tra due civiltà”, ricordo Ruggero D’Altavilla, fondatore di questa Chiesa, consacrò con la parola l’orgoglio di essere suoi figli.
E quale seguito abbiamo dato a quell’incitamento? È passato l’anno 1997 che segnava il nono centenario di quel Parlamento Ruggeriano che è da considerarsi la pagina più gloriosa della storia di questa Città, una delle prime scintille di democrazia che si accesero in Italia e in Europa. È passato l’anno 2001 che segnava il nono centenario della morte del gran Conte Ruggero D’Altavilla, il fondatore di questa Chiesa, la figura a cui Mazara e la Sicilia devono il loro ritorno all’Europa Cristiana, e noi dove eravamo?
Il Papa toccò in quel discorso temi sociali di forte e inquietante contenuto.
Disse che anche nella nostra Città, come altrove, “si avvertono i segni di forze occulte e di una crisi che sempre più va investendo i cardini ideali ed etici della società”.
Aggiunse che anche qui germoglia e cresce “il seme dell’ingiustizia sociale, del disordine urbanistico ed ambientale, della disgregazione della famiglia, della droga, del degrado amministrativo e politico”.
Quale percorso abbiamo compiuto da allora ad oggi per tentare almeno di combattere ed abbattere questi flagelli?
E continuò ricordando che Mazara aveva sempre legato i suoi grandi valori religiosi e morali alla sua tradizione, alla sua storia, alla devozione al giovano patrono San Vito “cui si gloria di aver dato i natali”. Consacrò il Papa, con quelle sue parole, un altro momento di grande intensità emotiva, consacrò questa terra e questa Città patria di Santi!
Ma le forze del male non devono prevalere su quelle del bene e la conclusione di quel discorso diventa un inno alla speranza. Il Papa ricorda “le copiose risorse umane e spirituali” che arginano in questa terra l’impeto della disgregazione morale: sono le forze attive e disinteressate del volontariato, e il vasto risveglio spirituale ed apostolico che alimenta sempre la gente operosa e laboriosa di Mazara sembra quasi che in quel momento ci ripeta le parole che accompagnarono il Suo pontificato: “alzatevi e camminate”. È quello che dobbiamo tentare di fare.
Per ricordare quel giorno ormai lontano, il Vescovo di quel tempo, Mons. Emanuele Catarinicchia, che si era prodigato con amore e passione pastorale alla venuta del Successore di Pietro nella nostra Mazara, fece apporre nello spazio antistante la Basilica Cattedrale una colonna dell’antica Chiesa normanna alla cui base una lapide reca queste parole:
“L’anno del Signore 1993, il giorno otto di maggio, in questo Piano Maggiore che fu centro e culla di sua storia, Mazara, fulgente di fede e di speranza, si donava all’abbraccio di S. S. Giovanni Paolo II.
Volevamo anche noi ricordare il grande Pontefice scomparso, indissolubilmente legato alla storia della nostra Città; lo abbiamo saputo farlo soltanto così.
(Pubblicato da mazaraonline.it – tratto dal periodico L’arco 05-2005)
Articolo di Mario Cajazzo