“Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’on. Aldo Moro in via Caetani. Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di targa sono N5″. Con questa telefonata il brigatista Valerio Morucci annunciò al professor Francesco Tritto, assistente del politico, la morte del presidente della Democrazia cristiana. E tutti, chi c’era e chi no, ricordano quella mattina di 40 anni fa quando, a pochi passi dalla sede del Partito comunista e da quella della Dc, venne fatto ritrovare Moro.
LA STRAGE DI VIA FANI – Quell’auto con il bagagliaio aperto tra via delle Botteghe oscure e piazza del Gesù significò la fine di 55 giorni di prigionia, iniziata il 16 marzo 1978 in via Fani, tra via Trionfale e via della Camiluccia, mentre Aldo Moro si recava alla Camera dei deputati dove, proprio quella mattina, era previsto il voto di fiducia per il quarto governo presieduto da Giulio Andreotti. In quel tratto di strada, a nord della Capitale, un numero mai precisato di brigatisti fermò la macchina del presidente della Dc e quella della scorta. Vennero sparati cento colpi in tre minuti. Gli uomini che avevano il compito di proteggere Moro morirono tutti: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Nessuna traccia del presidente della Dc, prelevato e spostato su una Fiat 132 blu.
L’ANNUNCIO DEL SEQUESTRO – “Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate rosse“. Con queste poche parole inviate all’agenzia Ansa, il gruppo terroristico nato all’inizio degli anni ’70 diede inizio a quei 55 giorni che fermarono l’Italia e blindarono Roma. Anche le immagini di quella mattina sono uno dei ricordi più vivi nella mente di tutti, chi c’era e chi no. E se è vero che l’Italia si fermò, è anche vero che si divise tra chi voleva trattare con i brigatisti e chi si oppose. In quei 55 giorni furono nove i comunicati emessi dalle Brigate Rosse. Nel primo, quello del 18 marzo, la motivazione del rapimento: “Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano”.
LE LETTERE DI MORO – Furono invece 86 le lettere scritte da Moro e indirizzate a familiari, a papa Paolo VI (amico personale), a colleghi di partito per aprire una trattativa. Alcune arrivano ai destinatari nei giorni del sequestro, altre saranno ritrovate in un diverso covo a Milano e nella prigione quando fu scoperta. Su quei 55 giorni non tutti i misteri sono stati ancora svelati, come ad esempio il luogo in cui fu tenuto prigioniero Moro. Secondo il racconto dei brigatisti, il presidente della Dc rimase nello stesso appartamento per tutto il tempo del sequestro, in via Montalcini n.8 al quartiere Portuense. Negli anni è stato ipotizzato che Moro sia stato invece spostato in altre zone della città, più isolate, verso la costa. Non ce n’è però conferma da testimonianze e interrogatori.
L’ITALIA DIVISA SULLA TRATTATIVA – A prescindere dalle incongruenze e dalle ipotesi inerenti quei giorni, l’epilogo è certo. Nell’ultimo comunicato delle Brigate Rosse, il numero nove, i terroristi annunciarono l’avvenuta esecuzione della sentenza di morte di Moro e la colpa venne attribuita senza mezzi termini allo Stato, “colpevole” di non aver accettato lo scambio chiesto nel comunicato numero otto: il dissequestro di Moro in cambio della liberazione di alcuni terroristi in quel momento in carcere. Ed è qui che l’Italia subì la spaccatura più forte. Da una parte il fronte della fermezza, composto dalla Dc, da socialdemocratici, repubblicani e liberali, che non voleva trattative che sarebbero state un riconoscimento politico delle Br. Dall’altra i possibilisti con il socialista Craxi in testa.
IL RITROVAMENTO DEL CORPO – Nessuna trattativa venne accettata. E Aldo Moro venne giustiziato e fatto ritrovare nella Renault 4 rossa in via Caetani il 9 maggio 1978. Ad annunciare il luogo in cui trovare il cadavere fu una telefonata: da un lato della cornetta l’allora brigatista Valerio Morucci, dall’altro il professor Francesco Tritto, uno degli assistenti di Moro. Quella mattina di 40 anni fa segnò la fine del compromesso storico, quell’accordo voluto proprio dal presidente della Dc con il Partito comunista, e l’inizio dei processi ai brigatisti che, evidentemente ancora convinti di portare avanti una lotta giusta, si dichiarono prigionieri politici davanti ai giudici. A oggi, a decenni di distanza da quei fatti, non si sono comunque pentiti.
(Fonte: Tgcom24.mediaset.it)