Affanno, febbre, mal di gola, tosse, dolori, ageusia (mancanza di gusto) e anosmia (mancanza di olfatto), solo per citarne alcuni: ognuno di noi negli ultimi 9 mesi ha imparato a conoscere, individuare e curare i sintomi fisici del Covid-19.
Ma cosa succede a livello psicologico quando si scopre la propria positività al virus?
Le campagne pubblicitarie di informazione hanno posto l’accento sull’importanza dei comportamenti individuali nella prevenzione al contagio: lavarsi le mani, igienizzare le superfici, indossare sempre mascherine e altri dispositivi di sicurezza proteggono dalla trasmissione e tutelano noi e gli altri.
“Perché allora, nonostante le accortezze, sono stato contagiato? Dove ho sbagliato? In cosa sono stato superficiale? Chi avrò contagiato e con quali conseguenze?”: semplici domande che affiorano alle mente insistendo sulle nostre responsabilità e facendo scattare il senso di colpa. Soprattutto in questa fase dell’epidemia il contagio avviene principalmente nella cerchia familiare e in quella lavorativa (dal momento che le occasioni di incontri sociali sono sconsigliate) ed è comune che chi crede di aver portato il virus in casa e in famiglia si senta responsabile e in colpa, a maggior ragione se ci sono parenti positivi o ammalati, persone fragili o bambini, anche in considerazione dell’imprevedibilità della manifestazione sintomatologica per i positivi.
Fortunatamente la sfera domestica è anche abbastanza “protetta”, è un contenitore emotivo collaudato, per cui è meno probabile che il senso di colpa si manifesti in modo eccessivo; al contrario, però, potrebbero essere gli altri a far sentire responsabili adottando di conseguenza quei comportamenti di evitamento e isolamento nei confronti dell’ “infetto” definiti comunemente “stigma”.
Il senso di colpa ha adattivamente la funzione di inibire i comportamenti che noi percepiamo come inappropriati, poco etici e immorali e si manifesta a seguito della violazione di norme condivise con il nostro ambiente di riferimento che nel tempo abbiamo interiorizzato.
Sigmund Freud a tal proposito parlava di “Super-Io”, indicando una delle tre istanze intrapsichiche che, insieme all’ “Es” e all’ “Io”, compongono il modello strutturale dell’apparato psichico: secondo lo psichiatra, il “Super-io” si origina dalla interiorizzazione dei codici di comportamento, divieti, ingiunzioni, schemi di valore (bene/male; giusto/sbagliato; buono/cattivo; gradevole/sgradevole) che il bambino attua all’interno del rapporto con la coppia dei genitori, ed è fonte di sentimenti quali vergogna, senso di colpa, angoscia e timore della punizione.
Da questo punto di vista, dunque, l’essere un veicolo di contagio può portare ad auto-colpevolizzazione, rimorso e rimpianto, in quanto il soggetto valuta di aver avuto la possibilità di agire diversamente, in modo più protetto e quindi socialmente più accettabile: è molto importante però che l’individuo trasformi questo momento in autoriflessione senza cedere ad autocommiserazione e forme di autopunizione.
E’ opportuno ricordare e sottolineare che il virus è subdolo, ormai ampiamente diffuso, corre anche tra gli asintomatici ed è di conseguenza di difficile individuazione, per cui pur prendendo tutte le dovute precauzioni si può essere semplicemente sfortunati e risultare contagiati.
Dott.ssa Alessia Zappavigna –Psicologa