Una delle prospettive a lungo termine nella lotta a Sars-Cov-2 è lo sviluppo di un vaccino efficace. Posto che non arriverà prima di un anno, secondo quanto dichiarato da Rino Rappuoli, uno dei maggiori esperti al mondo sul tema, in tutto il mondo sono già iniziate le prime sperimentazioni.
Ad oggi, tra i tanti tentativi di produrre un vaccino contro Sars-Cov-2, spicca sicuramente mRNA-1273, un vaccino a Rna della biotech Moderna che nei giorni scorsi è stato iniettato per la prima volta in alcuni volontari sani. Una procedura che prevede tre iniezioni distanziate di 28 giorni ciascuna. Un altro tentativo di vaccino è quello dell’azienda biotech Takis. Anche in questo caso si utilizzerà un frammento del genoma del coronavirus. Il Ministero della Salute ha appena autorizzato l’avvio della sperimentazione sugli animali e in autunno, se tuttò andrà bene, partirà la sperimentazione nell’uomo. Ma le novità non finiscono qui perché, oltre ai casi citati, le aziende Inovio, Novovax, Curevax, Cepi e GlaxoSmithKline sono al lavoro nel tentativo di arrivare ad un vaccino. Attenzione però a pensare che la soluzione sia questione di settimane. Come ha ricordato Rino Rappuoli in un’intervista al Corriere della Sera, «in laboratorio, una volta avuta la sequenza genetica del virus – si possono realizzare vaccini anche in una settimana, utilizzabili però soltanto in laboratorio e su modelli animali, dopodiché vanno provati nell’uomo e questo comporta due fasi, per una durata complessiva di almeno sei mesi, è necessario passare alle fasi di sperimentazione preclinica, utilizzando colture di cellule e modelli animali.L’obiettivo di queste fasi è innanzitutto valutarne l’eventuale tossicità e testarne il funzionamento. Solo se i risultati ottenuti indicano che il vaccino è potenzialmente efficace e sufficientemente sicuro, si può passare alla sperimentazione clinica sull’uomo.
Diventato ormai un filantropo a 360 gradi – soprattutto dopo il suo addio alla poltrona di presidente di Microsoft – Bill Gates è in prima linea nella lotta al Coronavirus.
Qualcuno l’ha già ribattezzato “vaccino di Bill Gates”. Sicuramente il contributo del genio dell’informatica agli studi in corso imprimerà una svolta determinante rispetto agli esiti del contagio da Covid-19.
Il vaccino Ino-4800 è stato somministrato a 40 volontari adulti sani che hanno ricevuto la prima dose e ne seguirà una seconda tra quattro settimane. Le risposte immunitarie e i dati di sicurezza dello studio sono previsti entro la fine dell’estate.
Intanto l’azienda fa sapere che prevede di disporre di un milione di dosi di vaccino entro la fine dell’anno per ulteriori studi e usi di emergenza, in attesa di linee guida e finanziamenti adeguati.
Bill Gates non si ferma qui. Il fondatore di Microsoft ha deciso di finanziare contemporaneamente sette strutture impegnate a lavorare al vaccino, destinando 125 milioni di dollari (oltre 115 milioni di euro) per realizzare laboratori e altri strumenti utili alla ricerca. La Gates Foundation potrebbe combattere l’epidemia più velocemente dei governi. Per finanziare il progetto, ha avviato anche una raccolta fondi. Tra i primi ad aver aderito c’è Mark Zuckerberg, che ha già donato 25 milioni di dollari.
Negli ultimi quattro anni in Israele il team di scienziati al MIGAL è stato impegnato nello sviluppo di vaccino contro il virus della bronchite infettiva (IBV), che provoca una malattia bronchiale che colpisce il pollame. Dopo che gli scienziati hanno sequenziato il DNA del nuovo coronavirus i ricercatori del MIGAL lo hanno esaminato e hanno scoperto che il coronavirus del pollame ha un’elevata somiglianza genetica con quello umano e che utilizza lo stesso meccanismo di infezione, il che aumenta la probabilità di raggiungere un vaccino umano efficace in un periodo di tempo molto breve.
Nell’elencazione degli Istituti Scientifici impegnati in questa corsa non manca di certo lo Yenner Institute della Oxford University .
Già a dicembre, quando i Cinesi hanno isolato e sequenziato il virus, lo Yenner ha sintetizzato immediatamente il gene della proteina Spike, che è la proteina del coronavirus, cioè la parte cattiva del virus, la parte contagiosa. I ricercatori hanno potuto sintetizzare subito questo gene della proteina del Covid-19 mettendo a frutto uno studio di vent’anni. Loro hanno avuto facilità a partire subito e a sintetizzare questo nuovo virus, avendo già un’importante esperienza alle spalle. Ora questo gene della proteina Spike, sintetizzato e quindi depotenziato, deve essere inoculato nell’organismo umano, e qui è intervenuta la nostra expertise, l’expertise della Advent/IRBM, perché cinque anni fa siamo stati noi, nei nostri laboratori, ad aver testato il vaccino anti-ebola”. L’IRBM è una società italiana fondata nel 2009 a Pomezia, operante nel settore della biotecnologia molecolare, della scienza biomedicale e della chimica organica. Il laboratorio di ricerca ha già realizzato il vaccino anti-ebola ed ora sta lavorando a quello per il Coronavirus. Sul vaccino intanto lavorano anche i colleghi israeliani ed un consorzio americano.
La terza candidata per lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus e finanziata sempre da Cepi è l’università del Queensland, in Australia. I ricercatori, in questo caso, stanno sviluppando un vaccino che si basa sull’ingegnerizzazione delle proteine virali. “L’obiettivo è di avere un candidato pronto per i test sugli esseri umani tra 16 settimane”, spiega il virologo Keith Chappell. “È davvero ambizioso, non possiamo garantire il successo ma il nostro team sta lavorando sodo e velocemente“. “Tutto quello che dobbiamo fare è adattare il sistema alla nuova sequenza ”, ha aggiunto lo scienziato. La prima la sperimentazione in vitro, poi si passa a quella animale. Le fasi di sperimentazione umana successive sono poi tre. Bisogna vedere quanto andranno abbreviate in questo caso, perché quando c’è una epidemia in corso le agenzie regolatorie tendono ad essere generose, si soppesano i vantaggi e gli svantaggi.
In Italia di cure in cantiere ce ne sono parecchie. Al Cotugno di Napoli si sperimenta un farmaco utilizzato finora per l’artrite reumatoide. È stato inoltre firmato un protocollo da alcuni centri regionali con capofila il policlinico San Matteo di Pavia anche combinando vecchi farmaci, per esempio quelli anti-Aids, progettati per bloccare l’enzima che permette al virus Hiv di penetrare nelle cellule.
La Regione Toscana rilancia volentieri la notizia del progetto tra la Fondazione Toscana Life Sciences di Siena e l’Istituto Spallanzani di Roma per la clonazione di anticorpi monoclonali da pazienti convalescenti, al fine di sviluppare trattamenti terapeutici contro il Covid-19 ed un futuro vaccino”. Lo ha detto il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi.
Come già avviene nell’ambito dell’immunoterapia tumorale, il nuovo progetto partirà dal sangue di pazienti convalescenti o guariti dal Coronavirus per isolarne e produrne appunto gli anticorpi monoclonali, ovvero gli elementi basilari per terapie e nuovi antigeni con cui velocizzare lo sviluppo di vaccini. Il tutto utilizzando un approccio sperimentale ai vaccini ideato da Rino Rappuoli di Gsk vaccines, ovvero un’altra figura ed azienda di riferimento su Siena.
In passato nel caso della Sars eravamo tra i pochi al mondo ad avere le tecnologie avanzate per fare i vaccini e quindi all’epoca siamo stati i pionieri, oggi ci sono molti laboratori nell’accademia e aziende di biotecnologie in grado di farlo e quindi ci siamo posti il problema di come dare un contributo senza ripetere quello che stanno facendo in tanti. Noi abbiamo una cosa importantissima che serve a sviluppare i vaccini: gli adiuvanti. Sono delle sostanze che si aggiungono ai vaccini per farli funzionare meglio e più velocemente e per realizzarli ci vogliono vent’anni. Oggi noi siamo l’unica azienda al mondo che ha degli adiuvanti registrati disponibili e che li può produrre in decine o centinaia di milioni di dosi. Quindi invece di fare la corsa al vaccino ci siamo messi in contatto con i migliori al mondo che stanno realizzano i vaccini e abbiamo messo loro a disposizione l’adiuvante in modo da accelerarne la produzione.
CLONARE gli anticorpi monoclonali da pazienti convalescenti per sviluppare la cura contro il coronavirus e un futuro vaccino. E’ l’obiettivo del progetto di ricerca nato dall’accordo biennale tra Toscana Life Sciences di Siena e l’Istituto nazionale malattie infettive dell’ospedale Spallanzani di Roma. L’Istituto Spallanzani darà la possibilità al team di ricercatori di accedere a informazioni e analisi del sangue dei pazienti con infezione Covid-19 allo scopo di isolare, coltivare e caratterizzare l’agente patogeno.
Secondo Silvio Garattini, presidente dell’Istituto Mario Negri di Milano, è possibile che entro la fine del 2020 possa iniziare la produzione di un vaccino contro il Covid-19.
Fra i percorsi individuati, una strada importante potrebbe essere rappresentata dall’uso, nei malati, del plasma, la parte liquida del sangue, di persone che hanno avuto Covid-19 e sono completamente guarite.
Queste persone, infatti, hanno sviluppato anticorpi contro il nuovo coronavirus che possono servire a chi è malato per combattere l’infezione. Attualmente in alcune città del nord Italia, come Mantova, sono partite delle sperimentazioni, che mostrano primi risultati di successo in pazienti gravi. L’efficacia di questa opzione, già impiegata in passato nella Sars e nella Mers, è stata provata anche da uno studio in Cina, per ora su 10 pazienti, pubblicato sulla prestigiosa rivista Pnas. Insomma, se ulteriori dati confermeranno la sua validità, il plasma da guariti potrebbe essere in futuro essere applicato su scala più ampia.
Per un vaccino in genere servono molti anni. Invece in questo caso potremmo averlo entro 1-3 anni. Per alcuni farmaci potremmo stare nell’ordine dei mesi: se si tratta di prodotti già registrati e utilizzati magari per altre patologie potrebbero essere a risposta abbastanza rapida. In quella che è una vera e propria corsa contro il tempo per trovare una cura, partecipano numerose aziende e centri di ricerca in tutto il mondo con tecnologie diverse e anche innovative. Una corsa che ha un impatto sulle Borse di tutto il mondo.
Ci sono le tentazioni nazionalistiche di alcuni Stati in nome di una guerra al nemico invisibile ma cresce sempre più l’ideale della scienza aperta, senza barriere fra nazioni e culture. La corsa al vaccino è già diventata il nuovo terreno di competizione fra Stati Uniti, Cina ed Europa. Non è solo una questione di prestigio: davanti a una minaccia globale per la salute e l’economia, disporre di una cura diventa una questione di sicurezza nazionale. E poiché in caso di successo per produrre abbastanza dosi vaccinali servirà tempo, arrivare per primi vorrà dire avere il controllo sulle forniture, assicurarsi le prime dosi e accrescere il potere di influenza sulle altre nazioni.
“La scienza è dell’umanità in tempo di pace, della patria in tempo di guerra”, come disse Fritz Haber, premio Nobel per la chimica nel 1918 e inventore di alcuni dei più micidiali gas tossici usati nella prima guerra mondiale come arma di distruzione di massa.la scienza è molto cambiata. Più che al genio di un manipolo di cervelloni che lavorano nel segreto dei loro laboratori, somiglia a un’impresa collettiva dove un incessante scambio di informazioni e competenze fra scienziati di ogni parte del mondo è ormai la norma. Applicare l’etichetta Made in China o Made in Usa ai risultati della scienza non è mai stato tanto complicato come oggi, scrive il New York Times. E questo vale anche per la ricerca sulla Covid-19: mai prima d’ora così tanti esperti di tanti Paesi hanno unito le forze per trovare soluzione a un singolo problema. La competizione non è certo scomparsa: fa ancora parte del gioco, ma è passata in secondo piano nell’urgenza di affrontare questa minaccia globale. Secondo la rivista Science, il coronavirus avrebbe addirittura stimolato una nuova cultura della ricerca e rivoluzionato la comunicazione fra gli scienziati, favorendo la cooperazione e consentendo agli studi di progredire più in fretta rispetto a qualsiasi epidemia del passato. È un sistema che talvolta crea qualche confusione, ma accelera enormemente lo scambio di dati e informazioni: quel che prima richiedeva mesi per essere condiviso e validato dalla comunità scientifica, oggi si compie in meno di 48 ore.
Il timore, però, è che non appena arriveranno i primi segnali di qualche ricerca davvero promettente, le aziende coinvolte vengano nazionalizzate, con il rischio concreto di intralciare la ricerca e avvelenare i rapporti internazionali. Faremmo il gioco del coronavirus, che ha già dimostrato di non temere né barriere geografiche, né tantomeno confini tracciati solo sulle mappe degli umani. Poiché è ormai chiaro che potremo fermare il contagio, non resta che rallentarne la diffusione in attesa di una cura o un vaccino sicuro ed efficace. Si dice che nelle guerre ci siano sempre vincitori e vinti. Questa però non è una guerra, è una pandemia. Stavolta abbiamo bisogno di collaborare come specie e non solo come clan. Perché l’unico modo per non darla vinta al coronavirus è trovare una cura più in fretta possibile e renderla accessibile a tutti, in modo equo. Ecco quel che la politica può imparare dalla ricerca scientifica.
Rosanna Catalano