La vita di una Chiesa è abitata dallo Spirito che sempre la illumina e la sorprende, con parole ed eventi che vanno oltre ogni aspettativa umana. La Chiesa di Mazara del Vallo, nella sua lunga storia, innumerevoli volte è stata illuminata e sorpresa. Io sono testimone di quanto è accaduto nel pomeriggio dell’8 maggio del 1993, in quel luogo dove l’orizzonte è dato dal confluire del cielo nel mare e sembra così prossimo da poterlo facilmente attraversare, dove il sole al mattino emerge e la sera vi si immerge, mettendo in atto un singolare e suggestivo spettacolo della natura, che rivela la magnificenza del Creatore. Sono passati ormai ventinove anni da quell’evento che abbiamo vissuto nella fede, con la presenza apostolica di Giovanni Paolo II tra noi. Presentandosi a tutti come “pellegrino di pace e missionario del Vangelo”, veniva a concludere i festeggiamenti del nono centenario della costituzione della nostra Chiesa locale.
Dono inatteso e non sperato, sognato e poi, per grazia di Dio, vissuto dentro una Chiesa in festa, gioiosa, raccolta attorno al suo Vescovo e al presbiterio. L’immagine della distesa del lungomare San Vito ricolmo, da un capo all’altro, di un popolo in festa che attende il Papa è indimenticabile. L’arrivo del successore di Pietro al porto, che si china a baciare il suolo inzuppato dal sudore della laboriosità dei nostri marittimi, è stato un boato di gioia che ha permesso di sentirci una sola grande famiglia. Laici e credenti, piccoli e grandi, immigrati e nativi del posto, abbiamo accolto il successore di Pietro e ci siamo messi in ascolto della sua parola. Come Chiesa di Mazara del Vallo siamo stati fieri e orgogliosi di accogliere il Papa e di presentarlo come nostro padre nella fede a tutti coloro che non condividevano o si erano allontanati dalla nostra fede; li abbiamo contagiati con la nostra gioia e li abbiamo coinvolti nella nostra festa. La nostra gratitudine e riconoscenza va al Vescovo Emanuele che, nella visita ad limina, ha invitato il Papa a conoscere personalmente la bellezza della nostra Chiesa. Una Chiesa, quella di Mazara del Vallo, che non manca di rughe, ma che sempre viene rigenerata e rinvigorita da Colui che la raduna con la sua Parola e i Sacramenti e la invia per una missione che mai avrà fine. Una Chiesa che si rivela capace non solo di contagiare e coinvolgere ma anche di responsabilizzare, vicini e lontani, nonostante tutto, in un stile di vita gioioso che abbia il sapore del Vangelo. Sarebbe veramente poca cosa se questo meraviglioso evento fosse vissuto solo in termini commemorativi e retorici, legato ad un passato, da guardare o pensare con nostalgia. Ogni dono dello Spirito, accolto nella fede, costruisce l’identità di una Chiesa ed assurge ad evento storico perché la struttura, la qualifica, la specifica, la rilancia. Dentro la Chiesa, per ogni singolo Cristiano, quell’evento storico, segnato dalla presenza dello Spirito, è un dono per la crescita personale.
A partire dall’8 maggio del 1993 la Chiesa di Mazara del Vallo è una Chiesa segnata, in modo indelebile, della presenza di un santo Papa, che con parole forti e coraggiose la sprona a portare avanti la missione che il suo Signore e Maestro le ha affidato. Dimenticare o relativizzare questa esperienza di Chiesa è come tradire la nostra specifica identità e missione. Sento il bisogno di ripensare a quell’evento per comprendere meglio e di più il dono che il Signore ha fatto alla nostra Chiesa e che ha segnato la mia vita di giovane presbitero, che iniziava il suo ministero come parroco dentro una comunità ecclesiale articolata, difficile e complessa. Vedo ancora lo sguardo penetrante di Giovanni Paolo II mentre gli porgo l’acqua benedetta e sento ancora l’eco della sua voce che, alla vista della navata centrale della cattedrale che culmina con la scena della Trasfigurazione, esclama: “Che bella!”. Percepisco ancora il calore della sua mano che tiene forte la mia, mentre attraversiamo la navata, piena di presbiteri e religiosi, fino all’altare del Sacramento. Come se, da vero padre nella fede, prendesse questo giovane prete e lo conducesse nel luogo dove è custodita l’Eucaristia, per indicargli il posto dove si trova il centro della sua vita. Ho avuto la netta sensazione, in quel tragitto, che non ero io ad accompagnare il Papa all’altare del Sacramento, ma era Lui che mi conduceva da Cristo Signore, attraversando il grembo del presbiterio che affollava, gioioso ed esultante, la navata della nostra Cattedrale.
Insieme a gran parte di voi ho sperimentato lo stesso stupore delle prime Chiese che accoglievano Pietro; ho letto negli occhi del vescovo Emanuele, di tutti i presbiteri, i religiosi e dei fedeli laici la meraviglia di sentirsi visitati, con vero affetto, da Colui che è stato chiamato a confermare nella fede i suoi fratelli. Siamo stati testimoni, protagonisti, destinatari dell’amore concreto con cui Dio, attraverso il successore di Pietro, guarda la nostra santa Chiesa e ciascuno di noi, per confermare, correggere, rilanciare la nostra vita ecclesiale e personale. Abbiamo insieme gioito nel Signore, andando oltre le nostre fragilità e miserie, ci siamo stretti l’uno con l’altro realizzando una piena comunione, per quanto è possibile realizzarla su questa terra. Venticinque anni sono un tempo sufficientemente lungo per rileggere, con il dovuto distacco emotivo, il senso di quella visita e per far riecheggiare tutto quello che il successore di Pietro disse a tutti i figli della Chiesa di Mazara del Vallo. Oggi, alcuni di quei figli sono già in paradiso e contemplano il volto di Dio, intercedendo per noi; noi siamo ancora in cammino e cerchiamo il volto di Dio dentro le pieghe, e qualche volta le piaghe, della storia e della vita. Per noi che siamo in cammino, con la “croce”, dietro a Colui che è il Crocifisso Risorto, le parole di San Giovanni Paolo II sono luce che illuminano il sentiero e la sua intercessione è forza che ci sostiene nei momenti di scoraggiamento e di sconforto; luce e forza perché la nostra testimonianza sia autentica e la nostra missione proficua. Legandosi alla liturgia della Parola, quel giorno ci ha detto: «Gesù è la pietra angolare, scelta, preziosa, sul cui fondamento la Chiesa, sotto l’azione dello Spirito, va edificando se stessa lungo i secoli. Quasi a metterci in guardia dalle ricorrenti tentazioni della superficialità e del clamore, o anche della delusione e della stanchezza, la Prima Lettera di Pietro ci ricorda che il fondamento della Chiesa è nel profondo: è in Cristo, crocifisso e risorto. In Lui il cristiano è chiamato a radicarsi, per trovare così la forza di corrispondere a pieno all’amore salvifico di Dio».
Spigolando dentro la ricchezza dei discorsi che Giovanni Paolo II ha fatto tra noi, metto in evidenza una dimensione che potrebbe diventare un punto di forza per la nostra identità e missione ecclesiale: “La vostra è una Chiesa di frontiera”. Così ci ha detto, per ben due volte! L’immagine della “frontiera” è ambivalente, bisogna interpretarla e comprenderla bene, perché può essere intesa come baluardo contro qualcuno che viene considerato nemico che invade, come dogana che rende difficoltosa l’entrata o come posto di blocco che impedisce l’accesso. La frontiera come “baluardo”, “dogana”, “posto di blocco” oggi più di ieri è una tentazione sempre in agguato, su cui vigilare attentamente. Papa Francesco non si stanca di ricordarcelo: la Chiesa non può essere una “fortezza” inaccessibile, né una “dogana” che ispeziona, né un “tribunale” che giudica e condanna. In uno dei passaggi della sua omelia, Giovanni Paolo II così si esprime: «Gli uomini anelano a dare un senso vero alla loro gioia e alla loro sofferenza, un oggetto sicuro alla loro insopprimibile speranza, una risposta appagante all’inquietudine a volte angosciante del loro cuore. Spetta alla Chiesa corrispondere a tali attese».
La Chiesa, nelle intenzioni di Colui che l’ha fondata e che la tiene in vita, è sì una frontiera, ma dalle porte spalancate, di umanità affratellata; attraverso la Chiesa si entra nello spazio umano/divino dove le divisioni e le separazioni devono essere del tutto eliminate, dove l’amore deve essere l’unica legge, dove il primo e l’ultimo possono sedere insieme alla stessa mensa. Se questo non avviene il volto della stessa Chiesa è sfigurato. Nelle parole di Giovanni Paolo II non vi sono equivoci, la frontiera è una porta aperta all’accoglienza, alla condivisione, al dialogo con gli uomini e le culture. Il Santo Papa ci riconosce dentro la Chiesa italiana come “frontiera naturale” e ci invia come missionari per il dialogo tra le culture e per l’accoglienza fra i popoli: «Vero crocevia della storia fra due civiltà, la vostra Chiesa di frontiera ha rappresentato e continua a rappresentare il naturale punto di contatto e di dialogo fra mondo cristiano e mondo musulmano, fornendo notevole contributo ad una cultura di tolleranza e di pace». Come è grande ed ampia la missione che Giovanni Paolo II ci riconosce o, forse sarebbe meglio dire, ci consegna. Siamo chiamati ad essere l’avamposto della maternità della Chiesa italiana, che deve permette di fare esperienza, a chi arriva sulla nostra terra, della bellezza e dell’originalità della nostra fede. Una missione che resta ancora quanto mai attuale e che chiede di essere esplicitata in un dialogo feriale e quotidiano con i nostri fratelli musulmani, ma anche in progetti educativi che pongano la scelta di vivere in pace come un punto su cui non è possibile tollerare nessuna deficienza.
Per scandagliare meglio i termini con cui si è rivolto a noi il successore di Pietro, dobbiamo chiederci: per la Chiesa che cosa può significare oggi, rispetto ad ieri, essere accogliente e promuovere il dialogo? Provo a declinare le due categorie nella prospettiva di una pastorale incarnata nel nostro territorio. L’accoglienza esprime, innanzitutto, il volto di Dio; essa descrive, in modo pedagogico, come coniugare comunione e missione, perché permette alla Chiesa di entrare in relazione con tutti e di poter fare un annuncio gioioso e gratuito; rivela l’autenticità di una comunità ecclesiale per costruire rapporti significativi e vitali e per facilitare un cammino di comunione. L’accoglienza è il cuore della carità. Accogliere è, inoltre, esercitarsi nell’ascolto; ovvero, cercare di dare risposte secondo quanto mi viene richiesto e non secondo i miei schemi prefissati; accogliere è rispettare l’altro così com’è, senza tentare di manipolarlo, ma accettandolo nella sua integrità, anche se può essere scomoda, perché nell’altro io vedo Dio.
Accogliere è, ancora, integrare l’altro nella comunità ecclesiale, perché possa sperimentare la gioia delle relazioni interpersonali, la sicurezza di sentirsi benvoluto, il sostegno dell’appoggio fraterno lungo i diversi momenti della sua vita. Accogliere significa lasciare esprimere l’altro, dargli la parola, anche se non ce l’ha o è impacciata; accogliere, vuol dire, invitare a creare le condizioni perché l’altro si apra, si riveli, sia se stesso. Accogliere significa, infine, eliminare tutti i preconcetti che creano invisibili barriere e contrapposizioni: circoncisi e non circoncisi, giudei e greci, credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, vicini e lontani, parrocchiani e non parrocchiani; mettersi in reale ascolto del punto di vista dell’altro per comprenderlo in profondità e per cercare gli elementi che risultano condivisibili per una comune ricerca della verità, aprirsi al dialogo. Al termine “dialogo” si possono attribuire diversi livelli e diverse forme; vi è innanzitutto un ambito umano, fatto di amicizia, di rispetto, di reciproca comunicazione, di condivisione delle idee, di buon vicinato; inoltre, vi è un ambito propriamente religioso che consiste nello stabilire rapporti di mutua conoscenza, di reciproco arricchimento nel rispetto delle diverse identità, delle diverse scale di valori, delle diverse appartenenze e convinzioni religiose.
In tutti i modi, il dialogo richiede sempre l’incontro e il confronto tra tutti gli interlocutori coinvolti e interessati, in cui ciascuno ha la responsabilità di offrire il suo contributo; di conseguenza, il processo dialogico è sempre interattivo e pluridirezionale; nel dialogo non c’è mai uno che dà ed un altro che riceve, ma tutti danno e tutti ricevono. Il dialogo non può avvenire al di fuori del contesto culturale in cui le persone sono collocate, non può fare a meno della multiforme mediazione comunicativa e linguistica; il dialogo avviene dentro la cultura che si respira e che forgia i bisogni delle persone.
La ricerca di senso che supporta il dialogo tra le persone, ma anche tra i popoli, richiede una visione antropologica di tipo relazionale e generativa; quando ci si chiude all’altro o quando si crede di essere sufficienti a se stessi, di fatto si esclude il dialogo. La relazione prima e fondante è quella generativa che chiama in causa la dimensione educativa della relazione stessa; nella relazione si coglie che l’altro non è un accessorio marginale, ma diventa l’elemento fondamentale per comprendere se stessi; nel concreto dell’esistenza, per poter conoscere la mia vera identità, ho bisogno di relazionarmi con l’altro.
In quest’ottica, il dialogo per il cristiano, non è semplicemente una scelta metodologica o una semplice tattica, ma una realtà che chiama in causa l’appartenenza e la qualità della fede ecclesiale, che si sottopone al vaglio del confronto esistenziale, nella ricerca di un senso che, non escludendo il dolore, si pone la prospettiva di una felicità piena. Dobbiamo umilmente riconoscerlo, l’apertura al dialogo è una sfida alla fede dei cristiani. Una fede stantia, stanca, abitudinaria e scolorita non può assumere la logica del dialogo, perché non può reggere al confronto con le domande che il diffuso dolore del mondo impone; solo una fede viva, capace, alla luce della croce, di non sfuggire al banco di prova del dolore e delle avversità può provocare ed aprire nuovi orizzonti. Dentro questa prospettiva, le difficoltà al dialogo esprimono forse la consistenza drammatica della crisi di fede in cui viviamo.
In riferimento al fenomeno migratorio a cui il Papa fa esplicito accenno, nonostante siano passati venticinque anni, siamo solo all’inizio, perché il fenomeno si è amplificato, e forse dobbiamo ancora maturare meglio le scelte da compiere e lo stile da assumere. Ci sono forse carismi da riconoscere e servizi da intraprendere; così ha detto Giovanni Paolo II: «Il carisma non è affatto un’arbitraria iniziativa del singolo all’interno della Chiesa. È piuttosto la risposta suscitata dallo Spirito ad un bisogno concreto, una risposta incarnata nelle capacità personali, confortata dall’approvazione della Comunità e garantita dall’autorità dell’Apostolo». Il fenomeno migratorio è una sfida non solo politica e culturale, ma anche pastorale, che ha interessato il mondo e la Chiesa di tutti i secoli, anche se non finiamo di essere tentati di vivere la nostra storia ed anche la nostra fede nella logica della paura e della chiusura. Una sfida che caratterizza il cammino post conciliare della Chiesa mazarese.
Ogni migrazione è prova, sia per i singoli o i gruppi che la vivono, sia per il popolo che l’accoglie; la sfida è per chi parte in cerca di fortuna o di pace; ma anche per chi viene visitato, in quanto è costretto ad un confronto e ad una verifica su ciò che vive, su come lo vive, su come affrontare il futuro. Accogliere questa sfida significa prendere consapevolezza che noi andiamo verso una nuova civiltà che dovrà essere orientata nell’unica prospettiva vivibile, quella dell’amore, che deve crescere, svilupparsi, maturare. La Chiesa di Mazara del Vallo, forse, deve ancora assumere in toto questa sfida e considerarsi come un vivente laboratorio per tutta la Chiesa italiana. Una Chiesa di frontiera, come la nostra, questa sfida non la può perdere. La Chiesa è sempre più consapevole che l’accoglienza reciproca è un banco di prova dell’autenticità dell’amore cristiano e che essa è chiamata ad essere presente nelle fratture che crocifiggono l’umanità nella sua carne e nella sua unità. Non si tratta di dare l’appalto a qualcuno, fosse anche la caritas o un istituto religioso, ma sensibilizzare e responsabilizzare, dal primo all’ultimo battezzato, che assumere la fede in Cristo come stile di vita significa considerarsi ed essere fratello universale dell’umanità.
Attraverso le migrazioni, la Chiesa è interpellata a diventare segno della fondamentale unità del genere umano, ma anche luogo dove si educa nel rispetto delle diversità di culture e fedi, in sinergia con tutte le altre agenzie educative. D’altra parte, il Concilio lo afferma in modo ufficiale: dentro l’umanità la Chiesa è sacramento. Credo di non sbagliarmi se indico la “Comunità Speranza”, guidata dalle Suore Francescane Missionarie di Maria, come uno di questi “luoghi educativi”, uno dei piccoli “segni sacramentali” che invera la vita della nostra Chiesa, che, però, deve ancora crescere e svilupparsi, con la benedizione di Dio e con la collaborazione di tutti. Come Chiesa diocesana non siamo all’anno zero, ma dobbiamo ancora camminare e maturare per essere realmente “segno” e “luogo” della nuova umanità.
Tutta la Chiesa è travagliata dal fenomeno della mobilità ed è invitata, per non dire costretta, ad abbandonare gli schemi pastorali del passato, per vivere in pienezza la sua missionarietà e la sua cattolicità. Nessuno deve fare proselitismo, approfittando delle condizioni di bisogno dell’altro, ma è giusto e rispettoso che ci presentiamo a lui per quello che siamo, cioè trasformati da Cristo e perciò capaci di accoglierlo così com’ è, anche nella sua fede diversa dalla nostra. Eravamo abituati ad inviare missionari nei luoghi dove la fede in Cristo non era conosciuta, adesso che i non cristiani sono tra noi siamo timidi ed impacciati. È urgente superare l’equivoco diffuso spesso nell’immaginario collettivo dei cristiani, che, per un falso rispetto dell’altrui fede, tacciono sulla propria; non è nonostante la nostra fede, ma nella nostra fede, che rispettiamo la fede altrui, la apprezziamo e ne accogliamo il messaggio.
La Chiesa sa che la via da percorrere è sempre quella del discepolato fedele e della testimonianza limpida; l’annuncio della fede è un atto fortemente implicativo perché chiama in causa la concreta esperienza dei singoli e dell’intera Chiesa. Questa è la via per una autentica evangelizzazione. Questo ci rende veramente Chiesa di frontiera. Il cristiano si fa compagno di strada di tutti coloro che incontra e li provoca alla ricerca di una vita degna dell’uomo. Tale strada è la vita concreta, che si presenta sempre complessa e articolata, con una pluralità di situazioni e di storie. Noi vogliamo camminare insieme a tutti, senza camuffamenti e senza chiusure mentali ed esistenziali, così come ha fatto Gesù di Nazareth per le vie della Galilea e della Giudea.
Consapevole di tutto questo, Giovanni Paolo II ha detto a noi presbiteri e religiosi che il nostro ministero “non è certo facile”, non si può improvvisare e non può essere vissuto dentro una prassi pastorale da routine, richiede «uno sforzo costante che deve accompagnare lungo l’intera esistenza, rendendovi sempre pronti a rispondere alle numerose sfide dell’attuale momento storico. Una formazione che si basi sull’orazione e sulla carità, autentico amore per il Signore e dono gratuito di sé agli altri.» Sono passati venticinque anni, la memoria resta viva e la gioia di quell’incontro è facilmente rinnovabile, le indicazioni pastorali che San Giovanni Paolo II ci ha dato sono ancora davanti a noi, come mete da raggiungere e per cui spenderci con intelligenza e coraggio. Paternamente ha concluso la sua omelia dicendo: «Non siete soli; non sentitevi soli. Stretti a Cristo, consacratevi interamente alla costruzione del suo tempio santo. I frutti abbondanti della sua misericordia premieranno, allora, i vostri sforzi e sperimenterete in misura sorprendente la gioia della comunione nell’unica fede. Riprendete con lena rinnovata un itinerario pastorale e missionario, caratterizzato da generosa carità e solidale fratellanza». San Giovanni Paolo II prega per noi!
don Giuseppe Alcamo
Fonte: diocesimazara.eu