Non possiamo permetterci il lusso di essere ingenui, credendo che con la morte di Matteo Messina Denaro sia morta la mafia. È morto un mafioso, forse il capo dei mafiosi, ma purtroppo non è morta la mafia, sia come associazione a delinquere, sia come cultura, sia come atteggiamento esistenziale.
La mafia è un fenomeno sociale negativo, che ha avuto origine in Sicilia, ma che presto si è diffuso in molte altre zone d’Italia e fuori d’Italia, pur continuando ad avere in Sicilia il suo principale centro. Sulla mafia si sono scritte intere biblioteche; io mi limiterò ad una breve esposizione del fenomeno, alla sua incidenza sulla cultura, ad i suoi effetti nefasti e ai timidi segnali di reazione e di proposte alternative.
Tra le tante definizioni, mi sembra completa quella data da Pietro Pezzino: «Per mafia definisco una forma di criminalità organizzata che tende ad esercitare tipiche funzioni di sovranità su un territorio: impone un sistema normativo, sanziona i devianti, attua, attraverso l’estorsione generalizzata, una sorta di sistema fiscale parallelo a quello statale (e spesso più efficace). In tal senso essa è dotata di una intrinseca politicità, nel senso di un proprio interesse per tutto ciò che riguarda la comunità civica sulla quale tende ad esercitare la sua sovranità. E sempre da tale sua natura “politica” deriva il fatto che essa è portata ad entrare in contatto con chi, su quella comunità, aspira ad esercitare una legittima egemonia, cioè non solo le istituzioni statali, ma anche chi detiene una autorità sociale comunque fondata».1
A differenza della criminalità comune, la mafia non viola il diritto ma lo nega, cioè non riconosce il monopolio statale della violenza e quindi è fuori e contro lo Stato, considerando il ricorso all’omicidio come la sua forma di giustizia. Nello stesso tempo, però, per le sue attività legate al denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica essa è dentro e con lo Stato, per cui la definizione di “criminalità istituzionalizzata” della commissione d’inchiesta del Parlamento Europeo, del novembre 1991, coglie pienamente nel segno.
A partire dalla metà degli anni Novanta (1995-1996) si assiste, dopo il terrore degli anni ’70-’80, ad una progressiva e sensibile trasformazione – quasi un ritorno al passato – del modo in cui ““cosa nostra” ” si è manifestata. Trasformazione caratterizzata da una progressiva scomparsa dalla scena pubblica e da una perdita di visibilità, che alcuni analisti hanno interpretato come un segnale di declino, di sconfitta, di indebolimento.
Declino, peraltro variamente motivato e a sostegno del quale è stata richiamata, oltre che l’incisiva campagna antimafia seguita alle stragi del ‘92-‘93, che hanno segnato non solo la coscienza dei siciliani, ma di tutti gli italiani, la presunta arcaicità dell’organizzazione e la conseguente inconciliabilità tra la struttura-tipo di ““cosa nostra” ” e l’evoluzione, la modernizzazione, la globalizzazione dei mercati del crimine internazionale.
Per altri, invece, la minore visibilità di ““cosa nostra” ”, più che essere un indicatore di un declino, è frutto di una precisa scelta strategica che, se in parte è motivata da alcune restrizioni e limitazioni imposte dal vigore dell’azione giudiziaria, d’altra parte è studiata e voluta per dare un nuovo rilancio alle attività dell’organizzazione.
1 P. PEZZINO, Chiesa e mafia, uno sguardo storico, in «Segno» 200 (1998), 74.
Le osservazioni di questi ultimi anni ci portano a ritenere che ““cosa nostra” ” si sia trasformata attraverso un percorso articolato nel segno della continuità e della stabilità, ma non della staticità. Una continuità ancorata alla tradizione storico-familiare, in cui nuove generazioni di uomini d’onore, discendenti per lo più da vecchi patriarchi, continuano ad alimentare il nucleo forte dell’organizzazione, in un milieu in cui si sono perdute anche le vecchie distinzioni tra vincenti e perdenti dell’ultimo e più recente conflitto interno alle famiglie.
Si tratta, quindi, di percorsi che si consumano nel segno della continuità e della stabilità ma non della staticità, e nei quali la tradizione storico-familiare, il radicamento sul territorio, i vincoli familiari continuano a rappresentare elementi importanti per l’organizzazione all’interno della quale, nel frattempo tendono a scemare anche le vecchie distinzioni tra vincenti e perdenti.
Oggi, a differenza dei padri e dei nonni, la nuova generazione di uomini d’onore investe in borsa e sul mercato immobiliare internazionale, trasferisce fondi e capitali con moderni mezzi telematici, pianificando gli investimenti con le multinazionali e le aziende di rilevanza mondiale.
In questo, favorita dalla virtualizzazione dei circuiti finanziari e dallo sviluppo delle tecnologie informatiche applicate all’economia e agli scambi internazionali che consentono di ridurre sensibilmente i tempi necessari per il reimpiego e l’occultamento dei flussi di denaro sporco, mentre aumentano gli strumenti e le opportunità che il mercato legale propone per ripulire i capitali provenienti dalle attività illegali.
La mafia è un fenomeno che potremmo definire, inafferrabile, è entrata nel costume, nel modo di dire e di fare. Non esiste infatti soltanto la mafia come associazione a delinquere, esiste un costume mafioso, atteggiamenti, criteri di giudizio, modelli di vita che si creano nella quotidianità e che non vanno nella direzione dei valori evangelici.
Giuseppe Savagnone più che parlare di “cultura mafiosa”, che interessa solo coloro che vivono una vita anti-evangelica, facendo la scelta di delinquere, preferisce parlare di “cultura della mafia”, chiamando in causa la totalità della società ed in particolare i cristiani.
Ai mafiosi veri e propri, – che sono il primo livello-, si può affiancare chi, pur non entrando nella illegalità, ritiene di poter capire e giustificare quanti operano illegalmente e offre, a questi ultimi, una copertura almeno morale con il proprio silenzio. Questo è il secondo livello della cultura della mafia, in cui si possono collocare anche molti cristiani che sottostanno alle leggi del ricatto, del pizzo, che fanno finta di non sapere e che si lasciano condizionare dalla paura.
Ma vi è, inoltre, un terzo livello – oltre ai due già menzionati – quello di coloro che partecipano al diffondersi della cultura della mafia «con la loro indifferenza, con la rassegnazione, con la convinzione che non si possa far altro se non fare come tutti, con l’auto-giustificazione di non aver tempo per occuparsi di ciò che riguarda il bene comune, con il credere che nei comportamenti come la raccomandazione, la richiesta o la pratica di favoritismi, e simili, non ci sia niente di male, col loro stessi sentirsi a posto mentre altri, accanto a loro muoiono».2
A chi guarda con senso critico la realtà quotidiana appare più che mai chiaro che la mafia non sono soltanto persone e organizzazioni precise, sono anche atteggiamenti e comportamenti diffusi, stile di vita che contagia l’apparato amministrativo, burocratico e molti gesti della vita quotidiana.
2 G. SAVAGNONE, la Nuova Evangelizzazione di fronte alla cultura della mafia. Relazione in vista del terzo convegno ecclesiale, 24 ottobre 1992.
Vi sono alcuni presupposti che devono essere rimossi, perchè risultano essere luoghi vitali per il nascere e il crescere della cultura mafiosa: il problema della disoccupazione, l’importazione di pseudo-valori estranei alla cultura del Sud, la mentalità “feudale” che ci costringe ad un atteggiamento dipendente da nuovi padroni democraticamente eletti, la mafiosità come cultura dominante, la criminalità feroce, la mancanza del senso della legalità e del senso dello Stato. Fin quando non si creeranno le condizioni adatte per uscire fuori da questi “mali”, sarà difficile ipotizzare l’emarginazione della mafia e dei mafiosi.
Come medicina a questa malattia, la Commissione parlamentare antimafia riconosce che è urgente «ripristinare la fiducia nella legge da parte dei cittadini e cercare di rompere quel principio, abbastanza diffuso nel comune sentire delle comunità meridionali, secondo cui non si ottiene nulla secondo le regole e per un proprio diritto, mentre si ottiene molto attraverso privilegiati rapporti personali con chi detiene il potere, sia esso politico che mafioso».
Di fronte al fenomeno mafioso non è sufficiente la repressione, attraverso una efficiente presenza della polizia e della Magistratura, è necessario un impegno straordinario di tipo educativo, che chiama in causa tutti gli uomini onesti, per evitare che il tessuto sociale e politico del Paese scivoli gradatamente in un processo di imbarbarimento delle istituzioni, di adeguamento al metodo mafioso, utilizzando il quale non sarà più facile discernere i confini tra lecito e illecito.
Il giorno in cui Matteo Messina Denaro è stato catturato, 16 gennaio 2023, per le persone a cui sono a servizio, ho scritto: Io non posso gioire per la cattura di Messina Denaro. Gioire contro di lui lo percepisco come un atto di ulteriore violenza. Gioire per la sua cattura lo vivo come un’ulteriore forma di sconfitta umana. Non posso pensare con la sua stessa logica, non posso continuare con il suo stesso agire. Io oggi non brindo! Io oggi vorrei piangere, ma anche questo non riesco a fare!
La cattura di Messina Denaro non mette fine alla violenza, alla disonestà, all’ingiustizia… Mette fine alla sua latitanza, assicura la giustizia alle sue vittime, disarma un pericoloso violento. Certo, tutto questo non è poco ma, di questo, non mi posso accontentare.
Non posso gioire, perchè la mafia in tutte le sue sfaccettature non è ancora finita, la logica mafiosa non è ancora superata, lo stile di vita prepotente e spaccone ancora non è debellato, gli imbrogli e le comunelle sono ancora all’ordine del giorno.
Inoltre, come cristiano non posso gioire perchè attorno a quest’uomo vedo solo fallimenti e dolori. Il fallimento di una vita che dedicata al male ha fatto, direttamente e indirettamente, soffrire tutti. Ha fatto soffrire le sue numerose vittime, i suoi concittadini che si vergognano di lui, i suoi familiari, lui stesso che ha vissuto come un topo nascosto dentro una fogna.
Adesso, il tumore lo ha costretto ad arrendersi e rendersi reperibile per le forze dell’ordine e per la giustizia umana. Ci voleva il tumore per darti il coraggio di comparire davanti a tutti con la tua identità? Matteo Messina Denaro perchè non hai dato ascolto alla tua coscienza di uomo? Perchè non hai fatto memoria di quanto di buono ti avevano insegnato i tuoi educatori? Perchè non hai avuto orrore nel vivere con la stessa logica di caino? Perchè non hai cercato aiuto in uomini onesti? Perchè non ti sei fidato dello Stato? Perchè non ti sei lasciato aiutare dalla Chiesa?
Queste domande mi tengono inquieto. Non posso gioire, perchè un altro prenderà il suo posto e continuerà a portare morte e dolore dentro la società. La sua cattura non è la fine del male, ma solo il passaggio del testimone. Io non posso gioire per la sua cattura!
Se mi fosse dato di poterlo incontrare, gli consiglierei di utilizzare questo ultimo tempo della sua vita, prima che il tumore lo consegni alla vera morte, per recuperare il male fatto, collaborando con la giustizia umana, gridando forte, in modo che tutti possano sentirlo, il suo fallimento umano. Matteo, fai un atto eroico, trova dentro di te il coraggio necessario per dire, chiaro e forte, che nella violenza non c’è futuro.
Se mi fosse dato di poterlo incontrare gli direi, inoltre, di non disperare, perchè Dio è più grande del suo male e, se lui lo desidera, assumendosi tutte le sue responsabilità, può riiniziare una vita nuova… finalmente! Matteo Messina Denaro dai spazio a quello che resta della tua umanità e convertiti, torna alla verità, alla giustizia, alla pace, a Dio. Chiedi perdono a tutti e presentati con umiltà, così come oggi ti abbiamo visto, per ritrovare un posto di “Uomo vero” dentro l’umanità.
Matteo, fratello mio, fai memoria di quella fede che hai ricevuto in dono nel momento del battesimo e, rinnegando tutto il male fatto, affidati a Dio che comunque ti cerca ed è l’unico, forse, che continua a volerti bene.
Con questo accorato appello ho inteso scuotere le coscienze di quanti senza nemmeno accorgersene respirano la cultura mafiosa e magari implicitamente la considerano non proprio così pericolosa.
Adesso che è morto, continuo a dire io non posso gioire, perché vedo il fallimento di una vita umana e tutto il male che ha fatto e che ha lasciato in eredità a quanti si riconoscono come suoi discepoli.
Leonardo Sciascia scriveva: «la democrazia non è impotente a combattere la mafia o meglio: non c’è nulla nel suo sistema, nei suoi principi, che necessariamente la porti a non poter combattere la mafia, a imporle una convivenza con la mafia. Ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia».3
Io aggiungo a tutto questo, la società italiana per combattere la mafia e i mafiosi ha dalla sua parte la sua lunga storia educativa, a cui deve ritornare a darle il primato, per aprire le nuove generazioni alla speranza. Questa è una missione ancora tutta da compiere per evitare che un nuovo capo mafia metta sotto scacco il futuro degli uomini onesti e laboriosi.
3 L. SCIASCIA, A futura memoria, Bompiani, Milano 1990, 139
Don Giuseppe Alcamo