I due pescherecci italiani sequestrati sono ormeggiati alla banchina principale della zona militare costruita ai tempi di Gheddafi nel grande porto di Bengasi. Ieri poco dopo mezzogiorno non erano visibili sentinelle attorno. Sono lì fermi e vuoti da dopo il sequestro da parte delle motovedette del maresciallo Khalifa Haftar la notte tra l’uno e due settembre. L’«Antartide» e il «Medinea» hanno le reti arrotolate sul ponte di poppa, vicino alle casse vuote, ben impilate, del pescato. I 18 membri dell’equipaggio (8 italiani, 6 tunisini, 2 indonesiani e 2 senegalesi) si trovano invece chiusi nella palazzina di quattro piani dell’amministrazione, sita a circa 500 metri dalle due barche.
Secondo un collaboratore locale delCorriere, che è stato al porto militare ieri, i prigionieri sono relegati in un grande stanzone al secondo piano. Il cibo viene servito regolarmente: una dieta a base di pasta, pesce e verdura. Trascorrono il tempo guardando la televisione, hanno servizi igienici sempre accessibili. Sin dall’inizio del sequestro, e come già nei numerosi casi simili nel passato, le autorità italiane hanno chiesto che i marinai non venissero chiusi in un carcere con altri prigionieri. Alcune settimane fa era girata la notizia che fossero stati spostati nel carcere civile di El Kuefia, una quindicina di chilometri da Bengasi. Ma dal campo testimoniano il contrario. Si tratta però di prigionia a pieno titolo. Non hanno alcuna libertà di movimento. L’intera area è circondata da un muro di cemento. Vi si accede dal centro città soltanto da un posto di blocco controllato dalle teste di cuoio con l’uniforme blu dei commando della marina di Haftar, addestrati dai consiglieri militari russi ed egiziani. Quattro o cinque sentinelle stazionano notte e giorno all’entrata della palazzina. Ma l’intera area mostra ancora i danni dei conflitti che hanno interessato la Libia dalla caduta del regime di Gheddafi nel 2011 ad oggi. I più gravi sono quelli causati dai gravissimi combattimenti tra le truppe di Haftar e le milizie legate al fronte jihadista nel 2014. Allora l’intero centro storico di Bengasi venne ridotto in macerie. La stessa palazzina dell’amministrazione del porto fu colpita ripetutamente dai mortai e le mitragliatrici pesanti. Alcuni squarci sono tutt’ora aperti.
A sentire gli ufficiali di Haftar sul posto, sembra ci siano poche speranze che gli italiani possano venire liberati per Natale. «La prossima settimana inizierà il processo agli italiani qui nel tribunale di Bengasi. Attendiamo il verdetto. E dobbiamo valutare se il governo di Roma è disposto a scambiare i calciatori libici condannati a 30 anni di carcere dai tribunali italiani», spiega un alto graduato che comanda la difesa del porto, riferendosi al caso dei quattro giovani libici accusati nel 2015 dal tribunale di Catania di essere trafficanti di esseri umani e di aver causato la morte di 49 migranti. Fonti locali spiegano inoltre la differenza del caso italiano con quello dei 17 marinai turchi a bordo del mercantile «Mabruka» fermati dai guardiacoste di Haftar il 5 dicembre e liberati solo 5 giorni dopo su pagamento di una cauzione da parte di Ankara. Dicono: «La nave turca è stata ispezionata. Non trasportava armi o merce illegale. Gli italiani stavano invece gettando le reti nella zona esclusiva libica di pesca. Sapevano di contravvenire le nostre leggi e non era la prima volta».
Fonte: Corriere.it – Articolo di Lorenzo Cremonesi