A pigiare i piedi sulle ortiche per pulire le scarpe dalla fanghiglia del greto. Suole di cartone. Le madri che strattonavano cariche di tovaglie annodate con dentro le uova bollite, la cartata di sarde, il pane rotondo, la pignata. Gli uomini davanti, già fra i giunchi, con le bottiglie nel panaro. Di vino e di bibita fatta con le bustine e la fialetta. Il Mazaro si restringeva sempre più e i pianori delle rive cedevano il posto a rocce scoscese e piene di “buchi”. L’acqua del fiume diventava sempre più bassa e diafana. Era la Miragliano dei racconti, e ragazzi e bambini sfuggivano di mano, attirati dal “flautare” di chitarre di calzolai e fisarmoniche di barbieri. C’era un ponticello di pietre prima della curva verso le perriere e il ponte vero del treno, e il grosso della folla di Pasquetta aveva steso le coperte e sistemato le griglie in quel fazzoletto di verde.
D’improvviso il camminamento di pietre si intasava di un via vai di gente che si sorreggeva, barcollava, metteva il piede a mollo. Pescatori scalzi, con i pantaloni arrotolati sopra la caviglia, rimettevano a piombo i pericolanti, come sulle barche beccheggianti. Si sentivano Amado mio, I pompieri di Viggiù, le canzoni di Oscar Carboni e Nilla Pizzi, magistralmente strimpellate. E si alzavano le fumate degli arrosti. L’erba si andava coprendo di gusci d’uovo e di foglie spolpate di carciofi, lische di sauri, sgombri, attarina, ritunnu. Qualcuno ballava mentre i ragazzini cercavano la “grotta dei sette parrini”, dentro la quale una delle leggende del “Giardino dell’emiro” fa smarrire per sempre sette seminaristi. Alla festa fluviale del Lunedì dell’Angelo c’erano le popolazioni di addabbanna la chiatta, con le case dipinte di rosa e gli interni coloratissimi e odorosi di pesce; gli altri marittimi che confinavano con i contadini della Makara, zona fuorimano che correva lungo la ferrovia, ai margini del paese; e tutti quelli delle strade marine al di qua del fiume: via Flavio Gioia, Mattana, Amalfi sino alla casbah fra via Bagno e il lungomare Caito.
Gli uomini di terra, delle botteghe e quelli che calzavano il Barbisio, aspettavano l’indomani per portare moglie e bambini alla scampagnata di San Vito – meta dei “passeggi” di scolaresche e seminaristi, sino alla chiesetta di San Vito: dopo c’era l’avventura polverosa. Una dotazione alimentare più morigerata, la visita alla chiesetta, un indugiare sugli ammassi di alghe sopra i quali ai primi di giugno sarebbero state montate le cabine del lido. I ragazzi mangiavano il campanaro (nella foto sotto) con l’uovo pittato al centro, si scattava qualche fotografia a gruppi “paralizzati” dai lunghi tempi di posa, morsi alle rianate di Martino Annibale (Martino D’Annibale, detto il grosso per distinguerlo dall’altro omonimo panettiere, detto il secco). La festa finiva quando il sole arrossava l’orizzonte, contro il quale, sull’estremo della riva nord del Mazaro, si stagliava la statua di San Vito con il suo braccio alzato a contrastare il male caparbio che, nascosto nel maestrale, tenta di entrare nella città.
(Fonte Condividere – Nino Giaramidaro)